sabato 31 marzo 2012

Per una cultura del limite


Senza nascondere la mia piena concorde soddisfazione, trascrivo
in questo Blog di “Parole per una cultura del limite
il nuovo percorso culturale dal titolo “Nel limite. La misura del futuro"
che il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani propone a tutti noi
tra marzo 2012 e febbraio 2013. Ecco di seguito le indicazioni dal sito


Nel limite. La misura del futuro. Marzo 2012 – Febbraio 2013
«… Oggi siamo alla mancanza del limite / e alla caduta della logica,
sotto il mito del prodotto interno lordo: / che deve crescere sempre,
non si sa perché. / Procedendo così, 
/ la moltiplicazione geometrica non basterà più
ed entreremo in un’iperbole…/ il progresso scorsoio»
Andrea Zanzotto
La scomparsa di Andrea Zanzotto, grande poeta ma anche attento e critico osservatore della sua terra, ci priva di quel suo sorriso ironico sulle cose della vita che solo chi ha vissuto amandola porta con sé. Con la stessa leggerezza, ci lascia in eredità il monito inquietante che possiamo ritrovare nelle parole di quello che potremmo forse considerare il suo testamento politico, il dialogo con il giornalista Marzio Breda e diventato un libro: “In questo progresso scorsoio”( [1]). Ho un nitido ricordo di quel passaggio televisivo in cui ne parlava: «In questo progresso scorsoio – diceva con lo sguardo sornione dei suoi gatti – non so se vengo ingoiato o ingoio».
Il “poeta della natura” poneva così, semplicemente, il tema del limite. Quel limite oltre il quale il futuro diventa incerto, fino ad essere messo in discussione, che ci rincorre fin dentro le nostre esistenze individuali, laddove nelle scelte quotidiane possiamo sperimentare come fra fini e mezzi non ci sia differenza. Oltre il limite, c’è guerra per accaparrasi le risorse, scontro di civiltà per giustificarla, accelerazione nei cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, omologazione e banalizzazione nei consumi, impoverimento dei paesaggi (naturali e della mente), abbandono delle campagne e inurbamento selvaggio, il “si salvi chi può” nella lotta fra generazioni, la follia di una ricerca funzionale all’inclusione di pochi e all’esclusione di molti. Ed altro ancora…
Quell’ultimo mezzo minuto…
Quello del limite non è un tema fra gli altri. L’assenza di una cultura della finitezza umana e delle cose che ne accompagnano il cammino ha fatto sì che il mito del progresso diventasse nel tempo proprio un nodo scorsoio che l’umanità si è messa al collo da sola in nome del proprio dominio sulla natura.
L’uomo si è pensato in conflitto con la natura o nella posizione di poterla addomesticare piuttosto che in alleanza, «come parte del tutto e non sopra le parti» ( [2]). Non sempre, per la verità. La parola humanitas nemmeno esisteva nella lingua e nel pensiero dei greci, i quali non hanno mai creduto – a differenza dei romani – che l’uomo fosse l’indiscusso signore dell’Universo.
Viene in mente quella nota simulazione compiuta da un astronomo che provò a comprimere la storia della Terra lungo i suoi circa 4 miliardi e mezzo di anni sulla scala di un solo anno.
«… secondo questa simulazione,
se a gennaio, su un braccio esterno della Via Lattea, si forma il Sole,
a febbraio si forma la Terra,
ad aprile i continenti emergono dalle acque,
a novembre appare la vegetazione,
a Natale si estingue il regno dei grandi rettili,
alle 23 del 31 dicembre compare l’uomo di Pechino,
a mezzanotte meno dieci l’uomo di Neanderthal,
nell’ultimo mezzo minuto si svolge l’intera storia umana conosciuta,
nell’ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era accumulato nei millenni precedenti…»( [3]).
Penso che nulla meglio di questo gioco possa far comprendere il significato del concetto di limite. Il fatto è che ci siamo affidati alle “magnifiche sorti e progressive”, verso le cui insidie Giacomo Leopardi ammoniva quel “secol superbo e sciocco” che aveva imboccato la strada delirante di un progresso senza limiti. E così, nell’ultimo secolo che da poco ci siamo messi alle spalle, in realtà una frazione di secondo nella nostra simulazione, l’uomo ha saputo e potuto applicare la scienza e la tecnica al suo istinto di guerra, con conseguenze a dir poco sconvolgenti: ne sono venuti la Soah, il Gulag ed Hiroshima. Un numero di morti in guerra, nel Novecento, più del doppio di quello dei secoli precedenti dei quali l’uomo abbia memoria.
Dovremmo allora quanto meno interrogarci sugli effetti di una cultura che non pone limiti né di natura etica e morale nel rapporto «con tutto quel che è … misteriosamente dato»( [4]), quasi fosse nelle nostre disponibilità il destino delle generazioni a venire. O quello delle altre specie viventi. Ed in effetti, la natura aggira l’ostacolo e si adatta a condizioni nuove ma non per questo non prive di effetti inquietanti: la scomparsa del 71% delle specie di farfalle, del 54% delle specie di uccelli, del 28% di quelle delle piante … sempre negli ultimi istanti della nostra simulazione.
Oltre il limite.
In effetti tutti oggi parlano, seppure talvolta a sproposito, di sostenibilità. Quando se ne iniziò a discutere anche sul piano politico con il primo “Rapporto sui limiti dello sviluppo” ( [5]), ponendo l’accento proprio sul carattere limitato delle risorse e mettendo in guardia l’umanità dal proseguire nell’idea di uno sviluppo illimitato, cosa che avrebbe potuto determinare nell’arco di un secolo una situazione di rottura irreversibile, l’accusa fu di catastrofismo: la scienza avrebbe comunque trovato una soluzione ai problemi che lo sviluppo portava con sé.
Erano gli anni del boom economico, della sfida fra chi per primo avrebbe inviato un uomo nello spazio o sulla Luna, dell’accesso a inediti livelli di consumo per le classi sociali subalterne e dell’idea che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato in sé l’emancipazione dalla schiavitù e dall’asservimento al capitale. In nome dello sviluppo venne messo in campo il compromesso keynesiano fra i diversi soggetti sociali di una parte del pianeta prima considerati antagonisti, senza nemmeno considerare che questo avrebbe potuto reggersi solo mantenendo nell’indigenza una rilevante parte del pianeta. Fino a legittimare nel tempo il ricorso alla guerra allo scopo di non mettere in discussione il proprio stile di vita, considerato “non negoziabile”.
Tant’è che nonostante aumentasse la consapevolezza dell’insostenibilità della crescita illimitata, si è proseguiti sulla strada di prima, gli uni per mantenere il proprio status, gli altri rivendicando un posto a tavola. Il tutto senza mai interrogarsi se il limite non fosse già alle loro spalle. Tanto che nel 1992, in occasione del primo aggiornamento del Rapporto, col titolo “Beyond the Limits”, gli stessi scienziati sostennero che i limiti della "capacità di carico" del pianeta erano già stati superati. Diagnosi confermata nel 2008, quando una nuova ricerca intitolata “Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali” , portò alla conclusione che i mutamenti nella produzione industriale ed agricola, nella popolazione e nell'inquinamento effettivamente avvenuti, erano coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo.
Un cambio di rotta.
Il carattere limitato delle risorse e la fragilità degli ecosistemi richiedono un netto cambio di rotta, un salto di paradigma che faccia della sostenibilità planetaria il perno di una nuova alleanza fra l’uomo e la natura.
In questi giorni è nato il sette miliardesimo cittadino della terra. Le previsioni indicano che nel 2030 (fra qualche frazione di secondo del nostro gioco simulato) gli umani sulla Terra toccheranno quota 9 miliardi. Questo significa una sola cosa: o le risorse esistenti vengono gestite con attenzione alla riproducibilità e ridistribuite equamente, o sarà la guerra.
In realtà la guerra è già. Lo è stata e continua ad esserlo per il petrolio, è già in corso la guerra per privatizzare l’acqua ed è iniziata, sia pure in silenzio (e a bassa intensità) quella per la terra come spazio vitale, considerato che la superficie coltivabile per sfamare 9 miliardi di persone richiederebbe una politica (ed un’autorità morale) mondiale che oggi non c’è.
Oltre ad acqua, terra e petrolio, si possono raccontare altre guerre: quelle per i fosfati nel Sahara, il Coltan del Congo, l’oppio in Afghanistan, la cocaina in Colombia, il pesce nell’emisfero australe, i beni rifugio (diamanti e oro) in Africa… Senza dimenticare la guerra con la terra che la logica del massimo profitto ha in corso quando raccontiamo delle discariche dei nostri dissennati stili di vita, dei rifiuti tossici e delle scorie nucleari stoccate da poteri criminali nei paradisi della deregolazione, nell’uso senza misura della chimica nell’agricoltura…
Sapremo tornare sui nostri passi? Saremo capaci di declinare la parola pace con quella di sobrietà? La cultura del limite saprà scalzare la dittatura del PIL? Sapremo realizzare una nuova alleanza con la natura per la salvaguardia del pianeta? Sapremo liberarci dal dominio delle cose?
Solo provando a dare qualche risposta a queste domande potremo forse evitare che questa infinitesima frazione della storia della Terra lasci dietro di sé ancora più furiosi scenari di guerra.
di Michele Nardelli, presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani
[1] (Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Garzanti, 2009)
[2] Ugo Morelli, Mente e paesaggio, Bollati Boringhieri, 2011
[3] Gianfranco Bettin, Il clima è fuori dai gangheri, Edizioni nottetempo, 2004
[4] Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di comunità, 1967. Scriveva la Arendt: “Quanto più una civiltà è evoluta, quanto più completo è il mondo da essa creato, quanto più familiare gli uomini trovano questo ambiente ‘artificiale’, tanto più essi si sentono irritati da quel che non hanno prodotto, da tutto quel che è loro misteriosamente dato” .
[5] Il Club di Roma, associazione non governativa costituitasi nel 1969 da scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di stato di tutti e cinque i continenti”.


E’ forse ora davvero di cambiar rotta.
O no?
Severo Laleo

lunedì 26 marzo 2012

L’indifferenza autoritaria dell’infantile gioco del ricatto


Leggiamo insieme le ultime notizie sul fronte del “dialogo”
(si fa per dire!)  a distanza tra le forze politiche e sociali.
La Ministra Fornero puntualizza con disumile piglio professorale:
Sull’articolo 18 il governo non cederà”, e il Premier Monti,
citando per l’occasione – guarda caso –Andreotti,
sfodera, già novello andreottiano, con più umile piglio:
Se il Paese non è pronto, il governo potrebbe anche non restare …
ma finora l'Italia si è mostrata più pronta del previsto”.
E’ una maledizione, questo Paese non cambierà mai!
Quando si è insediato questo governo, su questo blog, con convinzione,
si è parlato di ritorno, a livello istituzionale, dopo anni di buffonerie,
a un moderno, civile, europeo comportamento di serietà,
grazie anche alla qualità delle persone chiamate al difficile compito
di “cambiare” un Paese ormai stanco di mafie, evasioni fiscali,
furbizie, e soprattutto di una diffusa ignoranza civica.
Il ritorno alla serietà, nel suo significato più ampio, quasi gobettiano,
di serietà politica, di serietà morale, di serietà (dia)logica,
era stato positivamente salutato, e  molti,
data soprattutto la grave crisi economica e sociale,
avevano accolto con soddisfazione la nascita del Governo Monti.
E parole di orientamento comune per il Paese erano state pronunciate
dal nostro Presidente della Repubblica: “Occorre
una straordinaria coesione sociale e nazionale
di fronte alle difficoltà molto gravi, alle prove molto dure
che l’Italia deve affrontare nel quadro sconvolgente di crisi finanziaria
che ha investito l’Europa e incombe sulla nostra economia e la nostra società.
L’Italia non può trovare la sua strada in un clima di guerra politica.
È indispensabile riavviare il dialogo tra campi politici contrapposti”.
Invece serietà, coesione sociale e nazionale, indispensabile dialogo
cadono, meschinamente, in assenza della necessaria pazienza (dia)logica,
nell’infantile e premoderno esercizio/gioco del ricatto,
maledettamente italiano, in politica, professori o non professori.
O no?
Severo Laleo

domenica 25 marzo 2012

Art. 18: il braccio di ferro malandrino


Una persona semplice, sincera, aperta, sì, normale
(la “violenza” di questo termine ora, qui, è sospesa),
specie se non è professore, ma conosce, per vita e studio,
la storia delle lotte sindacali di questo Paese e, magari, ha avuto la fortuna
(spesso è davvero una fortuna!) di leggere a scuola e la Costituzione
(“la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro
e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”)
e la Dichiarazione Universale dei diritti Umani
(“Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego,
a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro 
ed alla protezione contro la disoccupazione”),
e, da buon cristiano, magari, conosce anche la Dottrina Sociale della Chiesa,
attraverso il Compendio del Catechismo, con il suo rifiuto sia dei
 “sistemi economici e sociali, che sacrificano i diritti fondamentali delle persone,
o che fanno del profitto la loro regola esclusiva o il loro fine ultimo … 
sia del  primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano” …,
e con la sua affermazione che “l'accesso a un sicuro e onesto lavoro deve essere aperto a tutti, senza ingiusta discriminazione,
nel rispetto della libera iniziativa economica e di un'equa retribuzione”,
e attraverso la Laborem exercens con la sua definitiva e intransigente conclusione (“ la dimensione oggettiva del lavoro
non prenda il sopravvento sulla dimensione soggettiva,
togliendo all'uomo o diminuendo la sua dignità e i suoi inalienabili diritti”),
ripeto, una persona semplice,attenta alla storia civile del suo Paese,
riscriverebbe così l’art. 18:

Il licenziamento individuale senza giusta causa è illegittimo.
A decidere tra reintegro e risarcimento è il giudice del lavoro”.

Ma la Ministra Fornero, con il Governo tutto o quasi, non è semplice,
ha altri obiettivi, e insiste, e non è sincera, perché vuole cambiare l’art. 18
solo per dare alle imprese la possibilità di un facile licenziare,
sia pure con la preoccupazione, bontà sua,
di evitare “abusi”, o una “valanga”, nei licenziamenti.
Forse è malandrino il braccio di ferro.
O no?
Severo Laleo

venerdì 23 marzo 2012

Il governo dei professori e la retorica della marcia indietro



Non pochi dei tecnici al Governo del Paese, pur professori in “materia di”,
ma scarsi, a considerare le loro non gradevoli espressioni,
spesso buttate lì per colpire i propri interlocutori,
in cultura del rispetto e della relazione umana,
specie nei confronti delle persone a reddito di sopravvivenza,
diventano sempre più antipatici per inutile arroganza.
E hanno, per orgoglio di parola, esacerbato anche la retorica 
negativa della marcia indietro.
Tocca, con esaltato piglio decisionale, alla ministra Fornero sillabare:
Assolutamente nessuna marcia indietro sull'articolo 18 da parte del governo"
Non ci si rende conto, con l'umiltà, paziente e orientante, dell’umanesimo,
che solo con l’uso di tutte le “marce” è possibile far strada insieme,
specie se si tratta anche di far “manovre” difficili.
Forse non può guidare un Paese chi non ha seguito lezioni di “Scuola Guida”.
O no?
Severo Laleo

giovedì 22 marzo 2012

Un "limite" per la riforma del lavoro? La dignità. "E' la dignità che attrae gli investimenti"

Leggo da “Famiglia cristiana”:

“Bisogna chiedersi, davanti alla questione dei licenziamenti,
chiamati elegantemente, con un eufemismo, “flessibilità in uscita”,
se il lavoratore è persona o merce
Rivolgo un appello a livello parlamentare e a livello di riflessione culturale
perché si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida.
Del resto, di fondo, come ho scritto nella mia diocesi 
in occasione di San Giuseppe,
siamo molto riconoscenti al ministro Fornero e al premier Monti
e ai sindacati per questo dibattito che ha riportato al centro il lavoro.
Ci hanno ridato la consapevolezza che il lavoro è un dono.
Ma c’è una parola chiave che deve rientrare: dignità. Per i nostri giovani
e per i loro padri che temono di essere licenziati per motivi economici.
Dobbiamo puntare su questo più che sulle paure.
Capisco che la declinazione di questi temi in una norma non è facile.
Ma  è la dignità che attrae gli investimenti”.  

Sono parole di Monsignor Giancarlo Bregantini,
arcivescovo di Campobasso-Bojano
e Presidente della Commissione Lavoro, Giustizia e Pace
della Conferenza Episcopale Italiana.

Semplicemente d’accordo. E la dignità sembra quasi diventare 
un nuovo "fattore" di sviluppo/crescita economica.
O no?
Severo Laleo

mercoledì 21 marzo 2012

Art. 18: mille piazze per un accordo. Una libertà senza limiti genera schiavitù


L’aggiramento doloso dell’art. 18 da parte del Governo Monti/Napolitano,
opera sì di “professori”, ma pur sempre “maestri” obliqui nel vizio italiano
della furbizia, anche nelle procedure di un finto “dialogo”,
è l’approdo definitivo di un percorso calcolato da tempo,
anche nelle tappe linguistiche (ricordate il ritornello sul “tabù”?),
e con esito scontato. Ideologicamente predeterminato.
E’ doloso l’aggiramento dell’art. 18, e nasce obliquo di furbizia,
perché non chiarendo – e i professori servono proprio per questo-,
in una materia così delicata, i limiti d’obbligo di un licenziamento
per motivi economici, in realtà nasconde ogni possibile trappola.
Se a decidere il licenziamento per motivi economici è solo l’impresa,
senza controlli e senza limiti, a priori definiti e concordati,
il rapporto impresa/lavoratori risulta sconvolto nelle sue basi di parità,
e potrebbe anche aprire riflessioni di incostituzionalità.
Quale interesse generale può essere perseguito quando “una parte”
ha il potere di dominare/condizionare “l’altra parte”?
La Cgil ha già deciso le sue azioni di protesta. Bene.
Ma i partiti di sinistra, i partiti fedeli  alla dottrina sociale della Chiesa,
i partiti ancora in grado, senza complessi di spread,
di distinguere/separare le esigenze del mercato
dall’irrinunciabile difesa/rispetto della dignità delle persone,  
dovrebbero subito organizzare una giornata di manifestazione,
in contemporanea, nelle mille piazze d’Italia, con un solo slogan:
Art. 18. Vogliamo un accordo limpido e trasparente”,
a garanzia della libertà di tutti, impresa e lavoro.
 E forse, con questa parola d’ordine, si potrebbero smascherare
gli estremisti del liberismo, anche se professori.
O no?
Severo Laleo



Articolo 18: il dialogo, il cammino, la meta e le elezioni


E’ un momento difficile. La pazienza è d’obbligo.
Nessuno può perdere il senso della “realtà” dell’economia.
E nessuno, per senso della realtà dell’economia,
può perdere il senso dei diritti della “persona”.
Intanto, per subito chiarire, condivido le preoccupazioni di Camusso,
quando dichiara: 1. “Tutte le volte che Governo ha preso provvedimenti (manovra, liberalizzazioni, lavoro) unici a subire sono stati i lavoratori”; 
2. “L’attenzione che Governo dedica a mercato non è pari all’attenzione che Governo dedica alla coesione sociale del Paese e alla condizione dei lavoratori”; 3. “Domani Direttivo Cgil deciderà come essere alla testa di un movimento
che ripropone lavoro come tema centrale nel Paese”.
Aspetterò domani la proposta della Cgil, ma subito vorrei esprimere
una mia opinione, da praticante di “dialogo educativo”.
Per trovare un accordo è sempre bene costruire un cammino comune.
Partire insieme per giungere insieme: è il senso del dialogo.
Un cammino, in genere, prevede una meta. Si discuta la meta.
Un cammino prevede delle tappe. Si discutano le tappe.
Un cammino prevede un bagaglio utile. Si discuta il bagaglio.
Un cammino prevede delle soste. Si discutano le soste.
Un cammino prevede … e via di seguito.
Purtroppo, oggi, il cammino si è fermato a una meta,
decisa dal Governo e da altri,
ma ha perso molti “compagni” di viaggio, disponibili a proseguire.
La  meta è stata così definita dal Sole 24 Ore on line:
Cambia l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il reintegro è previsto solo per i licenziamenti discriminatori.
Per quelli disciplinari deciderà il giudice tra reintegro o indennizzo.
Per quelli per motivi economici è previsto solo l'indennizzo.
Per i licenziamenti per motivi discriminatori, il reintegro sarà accompagnato
dai contributi non versati durante il periodo di sospensione dal lavoro.
L'obbligo di reintegro in caso di licenziamenti discriminatori viene esteso anche
alle imprese con meno di 15 dipendenti. Nei casi di licenziamento per motivi disciplinari è il giudice a decidere tra il reintegro "nei casi gravi" o l'indennizzo.
Quest'ultimo potrà essere erogato fino a un massimo di 27 mensilità
tenendo conto dell'anzianità del lavoratore. Per i licenziamenti per motivi economici è invece previsto solo un risarcimento che potrà essere da un minimo di 15 mensilità fino a un massimo di 27 dell'ultima retribuzione”.
Ma una meta, perché sia di tutti, ha bisogno di spirito di condivisione
tra i pellegrini: e chi meglio conosce, per esperienza e per “racconti”, la meta
avrà il compito di illustrarla a chi non la conosce,
descrivendone per filo e per segno ogni “qualità”.
Ora perché Monti, pur camminatore esperto e determinato, si ferma,
senza riuscire a spiegare per filo e per segno:
1.      quali sono i motivi discriminatori
2.      quali sono i motivi disciplinari
3.      quali sono i motivi economici.
Se Monti riuscisse a definire, con precisione, insieme ai suoi pellegrini,
le situazioni inequivocabili dei licenziamenti per motivi economici,
scrivendo, con tutti i soggetti deputati, regole chiare e condivise,
molto probabilmente la meta diventa con convinzione approdo di tutti.
Se io so, perché ho contribuito a definirli, che i motivi economici
sono elencati con estrema chiarezza, e da tutti accolti,
e so che a decidere, in un eventuale contenzioso, è, ad esempio,
un organismo interno paritario impresa/lavoratori,
forse l’accordo può trovarsi, sia per incrementare la qualità d’impresa
sia per garantire i diritti della persona nel lavoro,
e il cammino può continuare. Ma a una condizione:
che tutti al termine raggiungano la meta senza perdite.
Altrimenti grazie a Monti/Napolitano e si vada a libere elezioni,
perché non si può lasciare solo al Governo, e a un Parlamento,
non più rappresentativo, il compito alto di riscrivere il nuovo capitolo 
della dignità della persona nel lavoro. 
O no?
Severo Laleo

lunedì 19 marzo 2012

Hollande, la cultura del limite, la ricchezza e l’autostrada


François Hollande, candidato socialista all’Eliseo, nell’annunciare
la sua proposta di tassare al 75%  la parte di reddito oltre  il milione di euro,
dichiara: «Non apprezzo le ricchezze indecenti, quelle che non hanno niente
a che vedere con il talento o l’intelligenza».
Voterei senza perplessità in Francia per Hollande, proprio per la sua proposta 
di tassazione, ma le sue parole sulla ricchezza non sono condivisibili.  
Sono premoderne. Le ricchezze sono “neutre”, non sono né decenti né indecenti, e prescindono dal talento e dall’intelligenza 
(anche un mafioso usa talento e intelligenza nella sua “impresa”!).   
Sono ricchezze e basta. Solo bisogna definire il “quanto” di una ricchezza.
Ed è compito di un moderno Stato stabilire quando una “ricchezza” 
è una “ricchezza”. Hollande, al di là della “valutazione emotiva” della ricchezza, 
è moderno quando afferma la necessità di una riforma fiscale giusta, 
in grado di rendere più equa la distribuzione del reddito.  
Ed è moderno quando propone di definire l’entità di una “ricchezza” 
sulla quale intervenire con un’aliquota marginale importante, 
a vantaggio dell’intera comunità; del resto solo grazie alla comunità 
è possibile a chiunque, con o senza talento, ma nel rispetto delle regole, 
l’accumular ricchezze. Porre un limite alla “ricchezza” è una scelta politica 
di equità per un democratico Stato moderno, perché, in un democratico Stato 
moderno, non può essere consentito a una singola persona di porsi, 
grazie al denaro, nella condizione di “comprare/condizionare” la libertà di altri.
 E per giustificare la sua proposta Hollande chiama in causa il patriottismo:
 “E’ patriottismo accettare di pagare un’imposta supplementare 
per raddrizzare il paese”. Anche qui l’affermazione di Hollande 
ha un sapore premoderno, sembra quasi chiedere ai “ricchi”, 
per il bene/carità di Patria, per “raddrizzare il paese”, 
di cedere/donare un supplemento di imposta.
No, non si tratta di chiedere un supplemento di imposta, ma di chiedere 
il giusto contributo per la realizzazione di servizi di qualità in un democratico 
Stato moderno, per il bene di quei tutti i quali comunque hanno contribuito 
alla formazione della ricchezza privata.
E allora si potrà dire: “Beati i ricchi, perché avranno la gioia di contribuire 
più di tanti altri al benessere del Paese”. Anzi, se ora si può incontrare 
da qualche parte un’opera, un servizio, una strumentazione con la targa 
“Dono del Sig. …”, domani si potrebbe percorrere un’autostrada con la targa 
“Realizzata con le imposte del Sig. ...”.
O no?
Severo Laleo

Con Codrignani, per una “cultura del limite”



Trovo in rete un interessante confronto tra Muraro e Codrignani.
L'intervento di Muraro è nel sito di IAPh Italia (Associazione Internazionale
delle Filosofe); l’intervento di Codrignani è nel sito del “paese delle donne”.
Non può, questo confronto, non essere ospitato in questo blog 
di "parole" per la cultura del limite.
O no?
Severo Laleo



Al limite, la violenza *,  di Luisa Muraro


* Anticipazione di un saggio breve, Dio è violent...!, che uscirà in giugno a cura dell’editrice Nottetempo di Roma.

La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l’idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri.
La costatazione che non siamo più animati dal sogno di stare tutti meglio, è un colpo mortale all’ideale dell’uguaglianza e alla politica dei diritti. E impone di riaprire il discorso sull’uso della forza. C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci.
Il discorso può aprirsi dicendo semplicemente che, in certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze. Si tratterà dunque di dosarla senza perderla.
La predicazione antiviolenza vorrebbe farci credere che la misura giusta la fisserebbe il confine tra forza e violenza: no, lo sconfinamento tra l’una e l’altra spesso è inevitabile. La misura da cercare è nella coincidenza fra la giustezza e la giustizia dell’agire, coincidenza che va cercata non dico a tentoni, ma quasi. La giustezza (che è parente dell’efficacia) è soprattutto dei mezzi, la giustizia è soprattutto dei fini. La loro rispondenza, sempre da ri-cercare, si oppone al cinismo del fine che giustificherebbe i mezzi, ma anche alla paralisi di un agire tutto conforme alle regole stabilite. Ed è un nome della politica.
Dosare l’uso della forza di cui si dispone fa parte della strategia dell’agire politico non come un’opzione qualsiasi ma come un sapere necessario; lo insegna molto bene l’antico filosofo taoista Sun-Tzu nell’Arte della guerra. La giustizia, per il generale che comanda l’esercito, consiste nell’obbedire agli ordini dell’Imperatore, ma il generale sa che “ci sono ordini dell’Imperatore ai quali non si deve obbedire”: bisogna saperlo se vogliamo accorciare le distanze fra la cosa giusta da fare qui e ora, e la giustizia del nostro fare, riconoscibile anche domani e dopodomani.
In seconda battuta deve venire, logicamente, un’aperta discussione sull’idea di violenza giusta.
Il nostro sistematico non chiamare in causa Dio (che ha le sue buone ragioni), ce la rende forse una questione improponibile, perché la violenza giusta è per definizione violenza divina, ossia manifestazione di un essere per essenza giusto. Che non è certo l’essere umano. Tra i nomi divini c’è anche Sole di giustizia. Non esiste? Pazienza, ci faremo luce con le candele, ma le verità teoriche restano tali anche in assenza di fatti, e teniamole presenti.
Altrimenti, in base a quello che capita di fatto tra gli umani, si crede che la violenza sia in sé cattiva. E si prepara il terreno per sostenere che essa si giustifica unicamente se il suo uso viene regolato per legge. Si sorvola così sul fatto che il diritto usa la violenza come uno strumento per scopi che il diritto stesso dichiara tali, giusti: un circolo vizioso dal quale non si esce senza spezzarlo, dato che il diritto vigente rispecchia lo stato dei rapporti di forza e la violenza non gli è certo estranea. Cose già dette e risapute. Possiamo far finta d’ignorarle? Si tratta di pensare una violenza che non è strumento di nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, e nessuno può farla sua, manifestazione di una giustizia che ci oltrepassa dalla quale, però, noi umani possiamo lasciarci usare, consapevoli del rischio inevitabile di cadere in errori ed eccessi. Dunque, violenza giusta non come categoria del diritto, al contrario, le cui condizioni storiche il diritto non può codificare, solo riconoscere a posteriori. Possono stabilirle, di volta in volta, soltanto le circostanze.
La forza, date certe circostanze, può giustamente ed efficacemente esercitarsi arrivando ai limiti della violenza e perfino oltrepassarli. Ma perché abbia senso discutere su questa tesi, giusta o sbagliata che sia, devo chiedermi se ho veramente la capacità di agire con tutta la forza potenzialmente mia, se ne dispongo effettivamente. Se non fosse così e se questo difetto di energia fosse diffuso, come temo, sarebbe ridicolo cercare un nuovo punto di leva, come voler saltare su un letto con le molle rotte. La predicazione antiviolenza, nella misura in cui esclude a priori l’idea di una violenza giusta, favorisce l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria. E ciò si ripercuote sull’intelligenza delle persone: chi non usa la sua forza quando gli sarebbe utile e necessario, sembra stupido, ma chi vi ha rinunciato a priori, lo diventa realmente. Nessuno lo dice ma, secondo me, nell’appannarsi dell’intelligenza collettiva in questo nostro paese, non c’entra solo il consumismo e cose simili, ma anche la fine della sfida comunista che veicolava un’idea di violenza giusta, quella rivoluzionaria; poco importa qui il giudizio politico, sto parlando di dosaggi interiori.
Dicendo “tutta la forza necessaria”, intendo la duplice forza della consapevolezza (non il recriminare e lamentarsi ma vedere e rendersi conto fino in fondo) e del tirare le conseguenze pratiche e logiche, quelle che stanno nelle possibilità della persona che vede e si rende conto.
Era nelle possibilità delle forze di pace presenti nella ex Iugoslavia difendere i civili inermi che furono assassinati in massa a Srebrenica nel 1995. E invece che cosa hanno fatto i militari dell’Onu? Hanno aiutato a selezionare le vittime destinate al massacro: l’hanno fatto non per paura né per complicità ma per semplice stupidità, incapaci di percepire il mostro dell’odio che era davanti ai loro occhi.
Era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione. Sette volte il capo del governo è andato impunemente a fare passerella nella città distrutta dal terremoto. Se lo avessero mandato indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati, nessuna polizia avrebbe osato picchiarli e arrestarli. E il loro centro storico, chissà, non sarebbe più il mucchio di macerie transennate che continua a essere.
I filosofi lamentano che confondiamo tra loro concetti diversi come potere, dominio, forza, violenza. D’accordo. Ma quando, per tutta risposta, si mettono a darci le loro accurate definizioni, vorrei dirgli: prima di ciò, dovreste indagare dove e come nasca la confusione. E chiedervi se per caso quella che appare una confusione non sia la manifestazione di qualcosa che fareste bene a guardare più da vicino. Rileggete quel capolavoro racchiuso in poche pagine che è L’Iliade poema della forza di Simone Weil. Sebbene forza e violenza siano fra loro ben diverse, separarle per definizione non fa che occultare un aspetto ineliminabile della realtà umana. Ci sono distanze e prossimità che non si stabiliscono verbalmente ma attivamente: la definizione giusta la troveremo alla luce di questo agire. Insomma, meno filosofia e più pratica.




Le ragioni "fisiche e metafisiche" della forza sono facilmente contestabili perché, se è vero che fin dai presocratici sappiamo di non poter prescindere dal conflitto, nel terzo millennio nessuno può teorizzare la guerra come soluzione. Per giunta la sapienza delle donne, che conoscono la violenza delle strutture di potere ma - anche e soprattutto - la violenza dei padroni del corpo femminile, insegna non solo l’indegnità, ma l’inutilità della forza.
So bene che non a questo tu fai riferimento, anche se forse non pensi che a muoverti sia la paura. Perché io, per esempio, ho paura.
Io, però, non ho mai pensato al progresso come a un ideale: secondo la storia umana dall’antenato africano - ma anche da Romolo Augustolo - a noi c’è stata una tensione evolutiva che ci induce (anche se non tutti e in tutti i paesi) a vivere perfino meglio e più a lungo. Non c’è garanzia di continuità neppure del sole o della specie umana. Però credo in un senso, il postulato di cui ho bisogno e che posso anche includere nella categoria del divino.
Neppure ho mai pensato che le ideologie fossero per sempre: la sinistra contiene tanti nomi storici che credo di continuare a pensare perfino con affetto, ma la prima incrinatura è avvenuta proprio sulla forza identitaria e, poi, nazionalista, con la spaccatura fra interventisti e anti- nel 1914. Certo, i partiti della sinistra - compresi quelli che con i nomi di Lottacontinua, Potop e, dopo, Rifondazione, Idv, perfino 5 Stelle hanno escluso di identificarsi come partiti - hanno fatto avanzare "le masse", rimaste purtroppo vulnerabili da media e consumi.
Vedo bene anch’io i rischi che il rullo compressore della crisi schiacci diritti e vite; ma non voglio "prevedere" l’uso della forza per nessuna legittima difesa. Mi interessa sapere se possiamo "prevenire".
La politica è sempre internazionale. Più di trent’anni fa si lottava contro "l’imperialismo delle multinazionali": era già la globalizzazione, ma non siamo riusciti a creare una globalizzazione culturale antagonista. L’economia è stata finanziarizzata e per giunta con titoli spazzatura e agenzie di rating inventate: quali proposte ci sono state per difendere i diritti? E’ evidente che adesso un mondo crolla e siamo in braghe di tela. Che forza possiamo usare, se troppa gente porta i bambini la domenica ai centri commerciali a vedere cose tutte uguali e tutte brutte e finisce le giornate al videopoker? Monti e la Fornero significano lacrime e sangue? Penso che solo la ragione e lo studio (sarò una prof, ma si studia troppo poco) possano far produrre proposte e correttivi e vie d’uscita dalla crisi per una più povera ma non peggiorata umanità. Quale "forza" può evitare trasformazioni già in essere se non, appunto, la ragione che è "di per sé" nonviolenta?
Viviamo immersi nel Mediterraneo come una portaerei e vediamo: che nessuno dei governi usciti dalle rivolte dei gelsomini è rassicurante per le diverse genti che aspiravano a miglior vita; che Israele medita sortite di forza contro un Iran uscito più minaccioso dalle elezioni; che la Siria è al crocevia di una crisi destinata a destabilizzare l’area; che in Turchia si penalizza l’informazione e non si risolve la questione kurda....E intanto l’Europa non mette in funzione ad altissimo livello gli strumenti sia della diplomazia sia degli aiuti. E noi per primi ci neghiamo perché tiriamo già la cinghia. E intanto abbiamo ridotto senza cancellarli gli F45. Reagan e i Bush armavano alleati infidi, boicottavano i trattati di disarmo e non proliferazione, aprivano fronti di guerra... Avevano per caso ragione?
Abbiamo sempre detto come donne, da Lisistrata in poi, che i conflitti si attraversano, si snodano, si sfarinano. Si prevengono. Lo abbiamo sempre detto perché partiamo dal senso del limite, contro ogni forma di hybris. Non è che, "al limite", resta il possibile ricorso alla violenza (o antiviolenza): la violenza è, in ogni caso, "il" limite.