mercoledì 30 maggio 2012

Il 2 giugno è la festa della Repubblica. Sì, ma in Emilia.


Il 2 Giugno è la Festa della Repubblica.
Bene.
Il 2 Giugno, alla festa della Repubblica, sfilano le Forze Armate  in Parata.
Bene.
La parata militare, grazie all’art. 11 della nostra Costituzione, ha il valore 
di una dimostrazione pubblica, in grande stile, di presenza efficiente
e avanzata di una strumentazione di Difesa della nostra Patria.
Bene.
Il Presidente della Repubblica, dati i tempi di crisi economica gravissima,
con il suo seguito di vittime, di suicidi e di disperati,
valutata la tragedia del terremoto in Emilia,
decide di celebrare il 2 Giugno “sobriamente in memoria delle vittime 
del terremoto” ... “perché la Repubblica deve confermare la sua forza 
e la sua serenità … per sottolineare che saprà vincere le grandi sfide 
che ha di fronte”. E aggiunge: “Sono profondamente convinto della volontà 
di un rinnovato spirito di solidarietà nazionale. Il 2 giugno verrà dedicato, 
oltre alle vittime del 2 giugno, proprio alla rinnovata Solidarietà nazionale».
Bene.
Eppure vorrei provare a coniugare il tutto con un’altra visione.
Il 2 Giugno è giorno di Festa della Repubblica?
Bene. Si vada in Emilia, con o senza Forze Armate, alla presenza di Napolitano,
a organizzare incontri di “convivialità”, per stare insieme, a fermare la paura
e  a riacchiappare la vita.
Il 2 Giugno è giorno di dimostrazione della potenza di Difesa della Patria?
Bene. Si vada in Emilia, alla presenza di Monti, a "difendere" le persone 
e il territorio, nostra reale Patria, con la potenza degli impegni/progetti 
di prevenzione per il futuro.
Napolitano vuole un 2 Giugno “sobrio, in memoria delle vittime”?
Bene. Si vada, con le autorità tutte, a onorare in Emilia la memoria delle vittime,
del terremoto e del lavoro: la "sobrietà", questa volta, ha anche un suo luogo.
Napolitano vuole “vincere le grandi sfide … in solidarietà nazionale”?
Bene. Oggi la "Solidarietà" è la forza di attingere, per vincere la grande sfida,
risorse umane ed economiche anche da una parata militare senza più senso.
O no?
Severo  Laleo

lunedì 28 maggio 2012

Povertà e cultura del limite: un promemoria per Monti

Scrive, nell’articolo dal titolo “Misura e povertà”, Aluisi Tosolini, su “Multiverso
riprendendo il documento-manifesto della Commissione Europea intitolato  
"EUROPA 2020. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva", la seguente riflessione, imperdibile, qui, in questo blog, 
per dare nuova qualità alle “parole per una cultura del limite": 
Tenendo ... conto del fatto che, negli ultimi decenni, la ricchezza è andata sempre più concentrandosi nelle mani di pochissime persone (il quintile più ricco detiene 
a livello planetario oltre l’80% della ricchezza mondiale), la misura della povertà 
è anche sempre stima della ‘s-misurata’ ricchezza, e quindi anche della mancata 
redistribuzione e dell’assenza della politica come luogo di definizione delle norme 
e delle regole in base alle quali effettuare la redistribuzione stessa. 
Questa riflessione, tuttavia, non è completa se non si fa riferimento 
anche ad un altro significato del termine misura:
essa va intesa pure come limite. E nel caso specifico come sobrietà.
La miseria sarà infatti sconfitta solo quando la sobrietà
e la cultura del limite saranno assunte come orizzonte di riferimento
per l’esperienza umana e la valutazione della sua realizzazione e felicità.
Quando la povertà-sobrietà diventerà la misura della pienezza dell’umanità.
Che è tale solo se è capacità di rispettare l’alterità, e quindi il limite.
Per vivere con misura”.
Quando un’idea, dall’apparenza utopica, si veste di progettualità,
e incontra la politica, può diventare realtà. Il nostro Presidente Monti,
sincero cittadino d'Europa, è avvisato. Se "crescono" i poveri, se, cioè,
la "crescita" tocca i poveri, e tra questi soprattutto i giovani senza lavoro,
e se si trova una modalità di ascolto per i "disperati" pronti al suicidio, 
un piccolo passo verso l' EUROPA 2020 sarà dato.
O no?
Severo Laleo


Le donne non sono più l’altra metà: sono di più. E niente cambia!




Trovo nel sito “il paese delle donne” una riflessione amara di Lidia Menapace,
dal titolo “Parliamo di genere”. Voglio, per spingere anche qualche altra persona
a una riflessione, trascriverla integralmente:

Le donne sono più degli uomini fino dalla prima votazione dopo la fine della seconda guerra mondiale: ma lasciamo perdere, eravamo "impreparate"; chissà gli uomini che preparazione si erano fatti sotto il fascismo, che avevano eletto con la legge Acerbo! ma lasciamo perdere.
Abbiamo aggiornato i numeri con l’ultimo censimento reso noto da pochi mesi e valido fino alla fine del 2011, dunque freschissimo. Risulta che le cittadine italiane sono circa due milioni più dei cittadini e fermiamoci qui, a numeri approssimati per difetto.
Abbiamo appena votato per un cospicuo numero di sedi amministrative e si fa un gran discutere sulle conseguenze. Le votazioni avvengono nei seggi per genere, ci sono cabine per gli uomini e cabine per le donne, come anche elenchi divisi per genere, sicché una cosa facilissima è fare le somme di quanti uomini hanno votato e quante donne e anche vedere, con una piccola operazione delle proporzioni, che si imparava in quarta elementare (x sta a y come ecc.) Risultati se l’astensione delle donne è maggiore di quella che già si deve dare per scontata, dato il maggior numero di donne. Nessuna di queste notizie ci è stata data. Non interessa sapere che le donne non contano, fino al punto che non si contano nemmeno?
Certamente pretendere di sapere quante erano le candidate e quante le elette sarebbe davvero troppo. Il linguaggio inclusivo è ignoto alla televisione di stato. IIlustri giornaliste sproloquiano interi pomeriggi e una serata senza che la parola donna esca loro di bocca. Vorrei ciononostante sapere quante erano le candidate e quante le elette e persino quante siano le sindache.
E adesso si "rimedierà" cooptando nelle giunte le donne che non disturbano? E chi farà questo, sia di destra, centrodestra, centro, centrosinistra, sinistra, presidenzialista o parlamentarista, vincitore o battuto pretende di essere "democratico"? non esiste una questione della rappresentanza delle cittadine? rimane intatto e rispettato più della virtù delle madri la regola dettata da grammatici dell’ Umanesimo che decretarono: In italiano nelle concordanze "prevale il maschile come genere più nobile"? "Ma perché le donne non protestarono?" chiedono virtuosamente i democratici:" Erano analfabete e non furono interpellate". Siamo ancora un genere un po’ ignobile e una magistrata può essere presa in giro nelle serate di bungabunga e questo non è offesa? Che bel paese per le donne!
Purtroppo siamo artisti del “rimediare”, noi Italiani. Sicuramente non mancheranno sindaci “democratici”, magari di sinistra, pronti a qualche femminile cooptazione. E a chiudere la questione “femminile” in bellezza, senza il rischio di scalfire la struttura maschilista della nostra organizzazione politico-istituzionale. Personalmente credo, soprattutto per recuperare l’astensionismo,
ma anche per offrire un nuovo approdo, un nuovo banco di lavoro, a chi oggi ha scelto di dare il suo voto al Movimento di Grillo (altro fenomeno di leaderismo maschilista all’italiana), sia necessario, a livello politico, una proposta forte di modifica dell’essere partito, una proposta di partito nuovo:
un partito nuovo nella sua struttura decisionale (un uomo e una donna insieme alla     segretaria, in     ogni istanza); 
un partito nuovo nella composizione degli organismi dirigenti (pari numero tra uomini e donne);
un partito nuovo nella scelta della dirigenza (metà per elezione, metà per sorteggio: è dovere di ogni iscritta/o offrire il suo impegno nel governo del partito, e non solo di chi lo chiede espressamente con una candidatura);
un partito nuovo per finanziamento (solo finanziamenti palesi degli iscritti);
un partito nuovo per la selezione di candidate/i alle elezioni, sempre in pari numero uomini/donne, con primarie tra iscritte/i.
E se si vuole aprire davvero una via al cambiamento della società, anche nella direzione dell’estensione della democrazia e della trasparenza, e soprattutto della formazione di una decisione pubblica non più condizionata/dominata da una cultura di genere maschile, è necessaria, in tutte le “sedi/posizioni” di natura “decisoria” istituzionale, la presenza uomo/donna alla pari, spezzando il monocratismo, di maschile origine. In realtà, il monocratismo, il potere/dominio, cioè, di uno solo, anche quando raggiunto per via democratica, è sempre l’esito peggiore del maschilismo, con tutte le sue degenerazioni, dal leaderismo carismatico all’uomo della provvidenza. Il maschilismo cade solo insieme al monocratismo.
Forse solo il bicratismo perfetto potrà segnare una nuova stagione di democrazia.
O no?
Severo Laleo